Rifacendomi ad un mio fortunato articolo pubblicato nell’ormai lontano dicembre 2020, nel quale, alla luce dei (fino ad allora) “distopici” eventi verificatisi, intendevo offrire degli spunti di riflessione a partire da alcuni paragoni tra miti greci, orientali e di altro genere sul tema dell’eroe che, mediante l’uso della ragione, ha la meglio sui mostri che gli si oppongono, intendo ora analizzare il tema del transumanesimo attraverso un racconto unitario. Ma che cos’è il transumanesimo? Si tratta, per farla breve, della tendenza a voler superare i limiti imposti dalla nostra condizione umana, compreso il limite supremo che è la morte, attraverso l’uso della scienza e della tecnologia. Una tendenza per cui l’uomo diverrebbe il dio di sé stesso, commettendo quello che secondo i Greci costituisce il cosiddetto peccato di “hybris” (“superbia”).
In realtà, tutta la letteratura greco-latina ci mette in guardia da questa tendenza: si pensi al celeberrimo mito di Dedalo ed Icaro, laddove Dedalo potrebbe essere considerato un transumanista ante litteram nel suo tentativo di costruire delle ali per evadere dal labirinto di Cnosso, che lui stesso aveva costruito. Il tentativo, come è noto, si concluderà tragicamente con la morte di Icaro. Il ragazzo, infatti, nonostante gli avvertimenti del padre e spinto da superba curiosità, si era voluto spingere verso il sole, che aveva sciolto la cera con cui le sue finte ali erano fissate, facendolo precipitare in mare nei pressi dell’isola che oggi porta il suo nome (Icaria). Oppure si pensi, per parte latina, al poeta Orazio, che all’inizio dell’Ars Poetica definisce follia l’idea che un artista dipinga uomini con il collo di cavallo e opere d’arte senza alcuna armonia, mentre in una delle sue più celebri Satire afferma che “est modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum[1]”.
Tuttavia, non è su questi testi, noti a chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la letteratura classica, che intendo soffermarmi. Intendo piuttosto parlare di un racconto spesso tradotto nelle versioni di liceo ma raramente analizzato di per sé e, soprattutto, costituendo quasi un unicum nella mitologia greco-romana[2], in relazione ad altre mitologie di popoli collegati al mondo greco quali, ad esempio, i popoli baltici e gli slavi dell’Est Europa, dove la vicenda di un giovane rapito dalle creature protettrici delle acque è invero piuttosto comune. Del resto, che tali contatti esistessero fin dall’antichità è evidente, senza voler tornare alle comuni origini indo-europee, anche da certi nomi greci, come Elettra (da elektron, ossia l’ambra baltica), ma soprattutto dalla cornice mitologica in cui questo racconto è inserito: il viaggio degli Argonauti, guidati da Giasone fino alla Colchide (corrispondente più o meno all’attuale Georgia) e alla terra dei Cimmeri, ossia una vasta area, definita “terra delle nebbie”, che oltre all’attuale Crimea arrivava fino alla penisola scandinava e al Mar Glaciale Artico. La stessa descrizione fisica degli eroi e degli dèi del mito, da Omero in poi raffigurati come biondi e con gli occhi azzurri, rispecchia un canone di bellezza che è certamente più facile riscontrare tra i popoli del Nord-Est dell’Europa che non nel Mediterraneo. E Ila, protagonista di questo racconto, rispecchia perfettamente questi canoni tipizzati. Pertanto, non sembrerà strano né assurdo, nella ricostruzione integrale del mito, paragonare Laume, sulla quale io stesso ho avuto modo di tradurre probabilmente l’unico testo esistente in latino, o le Rusalki, Sirene dell’Est, non tanto e non solo a Lamìa, con cui il nome di Laume è etimologicamente connesso, quanto piuttosto alle Naiadi che rapiscono Ila e, seppur involontariamente, lo portano alla morte.
Ora, non volendomi allontanare troppo dal tema dell’articolo con un discorso che potrebbe proseguire a lungo, prima di riportare il mito interamente ricostruito e tradotto dal latino è bene sottolinearne alcuni aspetti. Anzitutto, si tenga presente che tanto le Naiadi quanto i Satiri sono creature chimeriche semidivine, mentre lo stesso Ila, secondo alcune tradizioni sarebbe stato figlio di una Ninfa, cosa che gli avrebbe concesso una bellezza sovraumana con i caratteri suddetti che ben si addicono allo status di eroe (kalokagathìa). Inoltre, degno di nota è il tentativo di Driope, che alcune fonti definiscono Deiopea, “la distruttrice”, di rendere Ila immortale ed eternamente giovane. Esso, infatti, si sviluppa dietro consiglio malizioso e perverso, nonché del tutto assurdo in linea con le caratteristiche del personaggio, di un satiro[3], tramite un procedimento ritenuto a torto magico e capace di portare alla sostituzione dell’anima (animale) e quindi della natura umana mortale con una immortale[4], che rispecchia taluni tentativi di potenziare all’estremo le capacità umane alla ricerca disperata dell’immortalità. Un tentativo che oggi alcuni credono più o meno consapevolmente di poter compiere mediante i mezzi della tecnica e la medicina, laddove queste hanno preso il posto della magia in una società quasi completamente secolarizzata. Questo, però, spinto alle estreme conseguenze non può che portare, come avviene nel mito e come scrisse anche C.S. Lewis in un suo celebre romanzo (“Quell’orribile forza”), alla disperazione e alla morte, giacché costituisce un peccato di hybris. L’ultimo elemento, che è peraltro la ragione profonda del peccato di hybris di Driope, è dato dalla sua curiosità. Sprovvista di limiti, infatti, la “curiositas”fin dal mito di Pandora è ritenuta dagli antichi la madre dei vizi e la causa di tutti i mali. Unici rimedi, come dirà Pronoe “dall’agile mente”, che nel mito è la sorella di Driope[5], in una conclusione che ricalca il “pathei mathos” dell’“Antigone” di Sofocle, sono “l’angoscia e il dolore”. Infatti, “solo chi ha molto sofferto alla fine impara ad essere saggio”.
Di seguito riporto il testo in traduzione italiana.
Ila e Driope
Vi era un tempo Ila, giovane fanciullo dai capelli biondi che Eracle, avendolo preso in simpatia, rapì, dopo aver ucciso in battaglia suo padre, Teiodamante, re dei Driopi, che gli si era opposto. Egli, dunque, godendo del favore dell’eroe, ne divenne fidato scudiero, accompagnandolo nella gloriosa impresa degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro. Giunta la nave Argo in Misia, Eracle ed il suo scudiero scesero a terra, l’uno a cercare del legno adatto per la costruzione di un remo e l’altro in cerca di acqua, portando con sé un’anfora di bronzo. Era infatti accaduto che, mentre ancora navigavano al largo nel vasto mare, Eracle avesse sfidato i suoi compagni ad una gara di forza e costanza, per vedere chi avesse remato più a lungo. Fu lui, ovviamente, l’eroe figlio di Zeus e Alcmena, ad avere la meglio, resistendo e spingendo la nave anche da solo, mentre tutti gli altri erano esausti o svenuti, finché perfino il suo remo cedette spezzandosi. Si trasse allora la nave a riva e si decise una tappa per recuperare le forze.
Scesi dunque a terra gli Argonauti si separarono. Ila, vagando tra i boschi con l’anfora in mano, attirato da alcune voci di donne, trovò finalmente la fonte che chiamano Pegea. Qui, non trovando nessuno ed essendo esausto anche lui, si distese a riposare. Mentre dormiva lo vide Driope, detta anche Deiopea, la “Devastatrice”. Era costei una Naiade che abitava la fonte con le sorelle Malide, Eunica, Nicea e Pronoe. Esse, avendo sentito arrivare Ila, avevano interrotto la propria danza e si erano gettate sott’acqua, nascondendosi tutte in una grotta parzialmente sommersa. Tutte, tranne Driope, ninfa bellissima, le cui membra erano candide come la neve e gli occhi e i lunghi capelli erano neri come una notte senza luna. Costei, infatti, vinta dalla curiosità, era tornata indietro per vedere chi mai si stesse avvicinando e, sportasi leggermente sopra la superficie del laghetto, scorse Ila che dormiva. Non appena lo vide se ne innamorò e, avvicinandosi timidamente, gli sfiorò le giovani membra. Si mosse il ragazzo al tocco della Naiade ma non si svegliò. Questa, però, presa da paura e imbarazzo, ritornò rapida sott’acqua, inciampando col piede sull’anfora che il ragazzo portava. Ila, risvegliatosi poco dopo a causa del rumore, si ricordò del proprio compito mentre nel bosco la sera scendeva e, piegatosi, fece per raccogliere l’acqua con l’anfora. Allora la Naiade, che sott’acqua aspettava gli eventi, sapendo che questa sarebbe stata l’unica occasione per dare sfogo alla propria passione, concepì un incauto piano: afferrato il ragazzo per le braccia, mentre questo lanciava un urlo di stupore e spavento, lo trascinò nella grotta, là dove l’acqua non poteva arrivare né alcuno poteva sentirli.
Udito il grido del suo scudiero, Eracle, temendo il peggio, si precipitò verso la fonte ma non lo trovò. Incontrato poi il compagno Polifemo, ebbe da lui conferma del fatto che presso la fonte non si vedessero segni di lotta, come se il giovane Ila, dopo aver chiesto aiuto, fosse del tutto scomparso. Solo l’anfora fu ritrovata, nei pressi della riva. Per tutta la notte proseguirono le ricerche, aiutati dai Misi, volenti o nolenti. Eracle, infatti, ritenendoli responsabili del rapimento del suo scudiero, li aveva minacciati dicendo che se non si fosse trovato Ila, lui stesso avrebbe messo a ferro e fuoco la Misia, sterminando i suoi abitanti. E le minacce di Eracle, si sa, vanno prese sul serio. Tuttavia, giunta ormai l’alba, ispezionato ogni anfratto, di Ila non c’era traccia. Lo stesso Eracle convinto ormai che egli non potesse essere stato rapito da uomini mortali, se ne tornò ai suoi affari, abbandonando perfino l’impresa di Argo. Frattanto, alla nave, Giasone, non vedendo tornare né Eracle né Ila né Polifemo ma volendo comunque sfruttare il vento favorevole, seppur con dolore ordinò di partire.
Ila, circondato dalle Naiadi, non sapeva come comportarsi. Queste, non appena lo videro, si indignarono contro la loro sorella Driope:
“Perché lo hai portato? Non è bene che un uomo mortale ci veda. Di certo da ciò nasceranno sventure!” dicevano.
“Non temete, sorelle”, rispose Driope, “dall’amore che provo per lui non può nascere alcuna sventura”.
E, così dicendo, giacque a lungo con Ila che, credendola a torto o a ragione una dea, al suo desiderio non si oppose. In seguito, il giovane, che dalla grotta non poteva più uscire e che del resto neanche ci provava, trovando piacevole la compagnia delle Naiadi, si ricordò dei suoi compagni e ne ebbe nostalgia.
“Ma che te ne importa?” rispondeva allora Driope, “tu ora hai me ed io ho te. Staremo insieme felici per sempre”.
Ma un giorno, mentre Driope era in giro per i boschi a procurare i cibi migliori per il suo amato prigioniero, essendosi distratta fu presa da un satiro, eterno avversario delle ninfe. Costui, cercando di farsela amica, seppur con voluttuosi pensieri, così le parlò:
“Ti ho osservata a lungo, Driope, più bella tra le Naiadi, e vedo che talvolta ti rechi al di fuori della splendida fonte, rientrandone sempre ricolma di doni. Che ti succede?”
“Non è affar tuo, lasciami!”, rispose Driope.
“Oh sì che lo è, invece”, replicò il satiro, “perché io ti amo e non vorrei che ad un altro tu avessi ceduto il tuo cuore, magari a un mortale”.
“Io ti disprezzo!”, disse la ninfa.
“Che tu lo voglia o no, adesso sei mia!”, concluse il satiro, cercando di violentarla.
“No, fermo! Aspetta”, esclamò la poverina cercando di temporeggiare, “ti dirò ciò che vuoi! Venne alla fonte un giovane, forte e di bell’aspetto, ad attingere acqua. Non appena lo vidi io fui subito presa dalla brama dell’aurea Afrodite, nata dalla spuma del mare. Così, senza pensarci due volte, mentre egli si chinava a riempire l’anfora, lo afferrai per le braccia, trascinandolo nella mia casa. Per lui, che io amo, esco ogni giorno a raccogliere cibo e con lui solo giaccio”.
“Quel giovane io lo vidi. Egli è mortale e tu sai cosa significa?”, le rispose il satiro.
“Che cosa?” chiese la ninfa, che non sapeva davvero cosa fosse la triste morte che attende gli uomini.
“Significa che il giovane corpo di cui a prima vista ti sei innamorata un giorno invecchierà e diventerà brutto e inguardabile. Infine, il tuo amato ti abbandonerà per sempre scendendo negli inferi e tu non potrai farci niente!”
“No! Tu menti!”, rispose Driope, spaventata e sconvolta, cercando invano di divincolarsi.
“Non mento, per Zeus!”, replicò il satiro e poi, sogghignando, aggiunse, “Esiste però un solo rimedio, che gli dei ctoni tramandano…ma te lo dirò se con me giacerai volentieri”.
“No, mai!”
“E allora ben presto la tua gioia si trasformerà in tristezza, se è vero che tutti, perfino gli dei beati, sono sottoposti alle Parche…”.
A queste parole Driope trasalì, cominciando a pensare che il satiro avesse ragione. “E va bene, acconsento”, rispose, “ma solo una volta”.
“Per una notte!” rispose il satiro.
“E sia!”, concluse Driope, accettando di giacere per una notte intera con l’orrenda creatura dei boschi.
Mentre ciò avveniva il satiro le espose il suo piano, nascondendo la malizia con le sue parole: “Tornata da lui, accompagnata dalle tue sorelle, invitalo a bagnarsi in acqua. Ciò fatto, trascinatelo sotto e, con l’aiuto delle tue sorelle, provocategli un riso sfrenato, ciascuna accarezzando le sue giovani membra, finché l’acqua limpida, entrando dalla bocca e dal naso, non gli avrà purificato i polmoni e ogni altra parte del corpo”.
“Ma così morirà!”, esclamò Driope.
“Occorre che la sua anima mortale sia consacrata agli dei ctoni e, scendendo fino a loro, sia sostituita con un’altra immortale che doni a costui l’eterna giovinezza, che tu invece possiedi per nascita. Dopo tre giorni, egli sarà tuo per sempre. Ma attenta, se il mortale dovesse accorgersi delle tue intenzioni, tutto sarebbe perduto”, concluse il satiro.
Liberata la ninfa, questa se ne tornò dalle sorelle. Una sola mancava: Pronoe, dall’agile mente. Esposto loro segretamente il piano senza che Ila le sentisse, Driope invitò il ragazzo a fare il bagno con lei. Qui, dopo che ciascuna delle ninfe gli ebbe afferrato rapidamente le braccia e le gambe, fu trascinato sott’acqua e gli fu fatto ciò che il satiro aveva detto.
“Ma che fate?!” gridò Ila non appena si vide preso dalle ninfe.
“Non opporre resistenza, è per il tuo bene, anche se non lo capisci”, lo tranquillizzò Driope, baciandolo.
Rise il ragazzo, seppur non volendo, e l’acqua penetrò fino ai polmoni ed ai visceri, facendolo affogare. A quel punto le ninfe lo trassero a terra, aspettando che passassero tre giorni. Trascorsi due giorni, al terzo il corpo cominciò a puzzare e putrefarsi, tanto che le ninfe non sapevano più cosa fare.
“Non temete”, le rassicurò Driope, “Occorre che ciò avvenga, ma da domani costui sarà come noi, godendo di vita immortale ed eterna giovinezza”.
Rientrata Pronoe, che si era recata a parlare con Zeus, il padre degli dei e degli uomini, e con Artemide signora dei boschi, al vedere il cadavere e sentendone il fetore, inorridì e gridando si scagliò contro Driope:
“Ma che hai fatto?!” le disse, “su di lui tu dovevi vegliare. Perché mai ora lo ritrovo cadavere orrendamente putrefatto? Questo luogo ormai è una tomba impura. Su, presto, dobbiamo scappare!”
“Stai calma, o Pronoe, che su ogni cosa rifletti. Costui non è morto per sempre, ma presto ritornerà tra noi, secondo le parole del satiro”.
“Le parole del satiro?!”, gridò Pronoe, pazza di rabbia perché già aveva capito cosa fosse accaduto, “tu lo hai ucciso! Dopo averlo rapito, tu stessa lo hai anche ucciso! Da quando è opportuno prestare fede alle parole dei satiri?! Certamente quello ti ha ingannata, voleva giacere con te, invidiando il tuo Ila! E tu, la più stolta tra le ninfe, hai tradito il tuo amato per quel mostro!”
Driope divenne ancor più pallida, le mancò la dolcissima voce, il suo nobile sangue cominciò a raggelarsi e, guardando il cadavere con gli occhi sbarrati, il sospetto che Pronoe dicesse la verità entrò nella sua mente di eterna fanciulla, sconvolgendola. A quel punto, passata la rabbia e abbracciando la sorella ormai fuori di sé per l’angoscia, Pronoe concluse: “Sorella mia, per tanti mali che affliggono il mondo è previsto un rimedio, cosicché nemmeno la morte, per chi è saggio, è da temere. Ma per la stupidità e la curiosità, che è madre dei vizi, unici rimedi sono il dolore e l’angoscia. Solo chi ha molto sofferto alla fine impara ad essere saggio”. Così Driope pianse e si strappò i bei capelli e tuttora si strugge per l’amore trovato, perduto e mai più ritrovato.
[1] C’è una misura nelle cose, vi sono senz’altro dei confini stabili, prima e dopo i quali non può esistere ciò che è giusto.
[2] Un caso mitologico simile è costituito da Odisseo, relegato sull’isola di Ogigia, patria della ninfa Calipso (nome parlante che significa “Colei che nasconde”). Ben diverso è invece il caso dei “Nympholeptoi” (lett. “rapiti dalle ninfe”), categoria non mitologica ma pseudoreligiosa a cui Socrate diceva di appartenere, di persone “possedute” dalle ninfe e votate al loro culto. Il rito di iniziazione a cui essi erano sottoposti presenta comunque delle somiglianze con quanto descritto, parodicamente, nel mito in oggetto.
[3] Sono ben note le tendenze compulsivamente sessuofile di entrambe queste creature, da cui in età moderna sono stati tratti i concetti di “ninfomania” e “satiromania”.
[4] Si vedano le riflessioni su questi temi presenti in particolare ne “I Greci e l’Irrazionale” di Eric Dodds.
[5] Si noti che Pronoe la Naiade è omonima di molte altre figure mitologiche tra cui la moglie di Prometeo (altro “peccatore” di hybris), una ninfa Oceanina ed una Naiade della Licia, che probabilmente potrebbe essere la stessa creatura, essendo sia la Licia che la Misia in Asia Minore.




