“Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino. Qui, lo Stato nazionale deve fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale un’opera grandiosa, più grandiosa delle più vittoriose guerre della nostra epoca borghese”.
Dai primi anni del 1900, quando fu scritto il Mein Kampf, la strada percorsa dai concetti di eutanasia ed eugenetica è stata lunga, ma oggi tali concetti, prima ritenuti dai più delle pure aberrazioni umane e dal diritto internazionale anche dei crimini contro l’umanità, sono stati sdoganati. Il diritto (rectius dovere) di morire di chi non è sano e degno di corpo e di spirito è stato surrettiziamente introdotto nella giurisprudenza degli Stati e in quella degli organismi interregionali e internazionali di tutela dei diritti umani. La vita, da bene indisponibile ed indivisibile, quale era in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali (cfr. Codice civile art. 5 che vieta espressamente gli atti di disposizione del proprio corpo), è diventato un bene disponibile, frazionabile, valutabile discrezionalmente come meritevole di essere tutelato o meno. Sotto diverso aspetto l’obbligo vaccinale, introdotto in Italia dalla legge 119/2017, ha definitivamente inserito nell’ordinamento, al fianco del diritto, anche il dovere di curarsi: di talché non si può più affermare che la persona abbia il diritto – non il dovere – di curarsi.
Attualmente l’esigenza di salute pubblica determina una lesione della libertà di autodeterminarsi in merito alle scelte esistenziali relative al proprio benessere, e questo è un dato di fatto oggi ineludibile a legislazione vigente. Il paziente è destinatario inerte della cura medica, non più attivo protagonista, poiché il trattamento è ormai frutto di un percorso non concordato con il medico, ma imposto dalla legge, e sul medico, casomai, incombe solo l’obbligo/dovere di colmare l’asimmetria informativa sugli eventuali effetti collaterali delle cure imposte. Il concetto stesso di “qualità della vita” introdotto per delimitare ed aggettivare uno stato assoluto come la vita, che è o non è, quindi che non è aggettivabile, è stato introdotto per rendere accettabili e lecite politiche transnazionali di riduzione della popolazione e dei costi, ormai accettate come ineluttabili, e persino necessarie, da un’opinione pubblica confusa e resa priva di strumenti culturali che ne possano sviluppare il senso critico. Il quadro giuridico delineato dalla giurisprudenza degli Stati è orientato verso una desacralizzazione della vita, che oggi non è più inviolabile ma è diventata valutabile, limitabile, aggettivabile. Ma qual è il problema se introduciamo negli ordinamenti il diritto di morire? Ogni diritto ha sempre come contraltare un dovere, cioè ad ogni pretesa giuridicamente tutelata fa da contraltare un obbligo giuridico di esaudirla. Accanto a chi esercita il diritto deve esserci chi lo adempie, e chi deve, allora, per garantire il diritto di morire di un soggetto, essere obbligato ad ucciderlo? Gli ordinamenti moderni hanno individuato nei medici i soggetti deputati ad adempiere il dovere in questione: da garanti della vita e delle cure volte a preservarla, essi oggi sono diventati i garanti della morte o meglio anche della vita qualitativamente degna (rectius della morte degna); quindi, i medici sono i soggetti scelti istituzionalmente come quelli che devono garantire l’uccisione igienicamente più corretta e che, istituzionalmente, devono valutare quando la vita non è più vita e deve essere interrotta e/o terminata.
Ma quale peso assume in questo contesto la volontà del soggetto interessato, ovvero del morituro? Un peso molto limitato, infatti il concetto che ormai ha assunto la generale diffusione è che la vita è tale finché la si può vivere «…con il vento nei capelli» oppure non è più vita ma diventa solo «mantenere attive delle funzioni biologiche». Così scriveva, anni fa, il sig. Welby al Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, in una lettera aperta:
“Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche [1]”.
Oggi entrare come malato terminale in un qualsiasi hospice o reparto ospedaliero espone il malato, spesso inconsapevole di essere ormai solo “delle funzioni biologiche”, ad una semplice procedura standard: essere immunizzato dalla sofferenza fino alla morte. L’uso della morfina, talvolta aumentata gradualmente dal medico fino a causare scientemente la morte del paziente, a prescindere dal consenso espresso dallo stesso su tali esiti fatali e spesso anche contro il suo espresso parere, è generalmente la prassi seguita in pressoché tutti questi luoghi, quando non si giunge addirittura, come nel caso “Lambert” e altri, a sospendere i supporti vitali, uccidendo per fame e sete il paziente. Il concetto di fondo è che percepire la sofferenza fisica ma anche, semplicemente, psicologica di essere gravemente malato, sia la peggiore delle soluzioni per il paziente. Quindi, per evitare ogni sofferenza, si ritiene sia meglio addormentarlo e terminare la sua vita anche contro la sua volontà. Purtroppo, in questo contesto tra i due vasi di metallo della volontà espressa dai parenti o da altri terzi che valutano questa situazione e la volontà dei medici che spesso procedono discrezionalmente, il vaso di coccio della volontà della persona che muore viene schiacciato, ovvero non conta esattamente nulla. L’art. 575 del Codice penale prevede che chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione fino ad anni ventuno. Si parla di uomo, attualmente, a partire dal distacco del feto dall’utero materno, anche se non è avvenuta l’espulsione definitiva dal corpo della madre [2]. Non rilevano ovviamente le condizioni di corpo, di mente, la nazionalità o la razza della vittima, ma solamente che sia vivo, diversamente infatti il reato sarebbe altrimenti impossibile. Ciò non significa che si richieda anche la vitalità, ovvero che il soggetto sia in grado di vivere a lungo: viene infatti considerato responsabile di omicidio anche chi cagiona la morte di un uomo agonizzante [3]. Secondo la giurisprudenza, quindi, quanto descritto sopra, ovvero ciò che avviene in molti di questi luoghi di cura dei malati terminali, sarebbe fuorilegge. Invece è la prassi ed essa, attualmente, sconfessa ogni previsione giuridica. Generalmente il medico, al familiare che espone, spesso disperatamente, la volontà del paziente di voler vivere comunque, malgrado la sua condizione di sofferente e/o di disabile, avanza obiezioni serrate, esponendo la asserita assenza di qualità della vita del morituro e l’egoismo del familiare che non vuole, a suo dire, lasciarlo andare. Di seguito, l’id quod plerumque accidit, è che la sedazione imposta faccia il suo corso, aumentando le dosi fino alla morte del paziente e spesso all’opposizione dei familiari segue un pronunciamento delle Corti come avvenuto nei casi Lambert, Schiavo, Englaro, Gard, Evans. La volontà dell’interessato appare sempre più un evanescente parere non vincolante espresso da un soggetto stritolato da un meccanismo sociale eutanasico inarrestabile. Ma qual è l’autonomia negoziale nel fine vita? In realtà concordo con chi afferma che, in ambito sanitario, il consenso non costituisce accordo, ma assenso, ossia una manifestazione di volontà che non si coniuga con un’altra volontà, con la conseguenza che esso non crea un vincolo, ma soltanto un’autorizzazione per il medico [4]. Perciò, non vi è nessuna autonomia negoziale, per l’ordinamento giuridico italiano: più che di un diritto di disporre o meno della propria esistenza secondo schemi puramente volontaristici, si dovrebbe parlare di meritevolezza o meno della negazione della propria esistenza. Entra allora in gioco per valutare la meritevolezza di tutela giuridica, di nuovo, il concetto di dignità umana: l’autonomia è tutelata, solo purché rivendichi la dignità della persona [5]. Paradossalmente, secondo questo criterio, così come non è tutelata la scelta suicida, pure la volontà di non vivere una vita ritenuta “non degna” o “non dignitosa” secondo parametri arbitrariamente definiti dallo Stato o dal medico di turno o dal familiare, magari interessato all’eredità, non sarebbe meritevole di tutela. Se è vero perciò che la persona, in definitiva, ha un diritto di vivere ma non un diritto di morire (in tal senso inequivocabile è la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, là dove avverte che l’art. 2 CEDU, che riconosce il diritto alla vita, non può essere interpretato nel senso di conferire l’opposto diritto alla morte), nemmeno si potrebbe fondare un diritto all’autodeterminazione inteso come diritto di preferire la morte alla vita [6]. Peraltro, la CEDU ha sempre svicolato sulla questione dell’applicazione degli art. 2, 3 e 8 della Convenzione ai casi di eutanasia e sull’accanimento terapeutico, affermando la competenza esclusiva degli Stati sulla disciplina del relativo punto.
La Corte afferma che spetta alla legge nazionale il compito di operare il delicato bilanciamento tra progresso e scienza medica da un lato, ed implicazioni etiche dall’altro. Osserva che tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa non vi è un consenso generalizzato in ordine alla sospensione dei trattamenti di idratazione e alimentazione artificiale per i pazienti in stato vegetativo, anche se la legislazione di gran parte di tali Paesi la consenta. Nell’ambito della disciplina di quella “fine della vita”, comunemente chiamata anche morte, i giudici di Strasburgo rilevano che gli Stati membri godono di un margine di apprezzamento non solo con riguardo al “se” autorizzare o meno la sospensione di tali trattamenti ai pazienti, ma anche in ordine al bilanciamento tra il diritto alla vita tutelato dall’art. 2, e quello, parimenti rilevante, del rispetto della vita privata e del libero arbitrio di ogni uomo, tutelati dall’art. 8 della Convenzione medesima. Al riguardo, la Corte rileva che l’art. 2 della Convenzione, nello stabilire, al § 1, che “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. (e che) Nessuno può essere privato intenzionalmente della vita […]”, non fissa una linea guida vincolante per gli Stati membri, ma lascia a questi il compito di individuare la struttura normativa più idonea a garantire la tutela di tale diritto supremo [7].
Di fatto, la CEDU, con questa pronuncia, che segue altre decisioni del tutto opinabili in materia, certifica l’abdicazione al suo ruolo istituzionale a tutela dei diritti umani degli individui nei confronti degli Stati, obliterando il principale diritto umano: quello alla vita. Le sentenze suddette certificano la grave crisi della Corte di Strasburgo se si considera che:
“La creazione di una Corte Europea dei diritti umani fu decisa nel 1950 ed effettivamente realizzata nel 1959. Ciò che diede la spinta verso la costruzione di un sistema di protezione internazionale dei diritti umani, fu l’incredibile serie di atrocità, perpetrate sotto l’egida di Stati, contro i più elementari diritti e libertà, negli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale e durante la stessa guerra. Soprattutto, la sistematicità dei soprusi commessi dagli Stati contro le persone, determinò l’esigenza di creare un ordine giuridico internazionale che permettesse di prevenire o almeno di riparare a questi attentati e atti di oppressione: emergeva, infatti, quale elemento comune a tutti questi casi, che essi erano espressione di una vera e propria politica statale, di cui gli individui erano spesso, allo stesso tempo, vittime e carnefici. L’esistenza di sistemi politici, incuranti del rispetto dei più elementari diritti umani, rese necessaria la previsione di una giurisdizione internazionale, ed a questa fu affidato il compito di supplire all’effettiva mancanza di una giurisdizione nazionale protettiva dei medesimi diritti. La creazione di una Corte Europea, con sede a Strasburgo, rispondeva perciò all’esigenza di apprestare un foro al quale i singoli individui potessero appellarsi per ottenere quella giustizia che i tribunali dei loro Stati non erano in grado di dare loro” [8].
Tuttavia, dietro il parametro dell’accanimento terapeutico si nasconde una vera è propria legalizzazione dell’eutanasia e, infine, della svalutazione definitiva della volontà del paziente. Il concetto stesso di accanimento terapeutico, oggi comunemente adottato come imperniato sulla valutazione della idoneità e proporzionalità dei mezzi terapeutici a disposizione a realizzare delle prospettive di miglioramento nel paziente, esclude, sic et simpliciter, dalla possibilità di vivere tutti i pazienti che non possono migliorare: gli stazionari o chi peggiora ma non muore. La scienza, e quella medica non fa eccezione, è caduca: la miglior scienza ed esperienza di un dato momento storico è ben lontana dall’essere un fatto oggettivo immutabile, ma si evolve in nuove scoperte e cure sopravvenienti: dunque, l’inguaribile, il malato terminale di oggi sarà con alto grado di probabilità guaribile domani. Perciò, la mutevolezza delle scoperte scientifiche apre una grande crepa nel muro del concetto stesso di accanimento terapeutico: ne esclude tutti i casi conservativi della vita, tutte le ipotesi in cui occorre conservare la vita nella prospettiva di una nuova terapia o di una scoperta scientifica innovativa nel settore. Ogni ragionamento eutanasico o che subordina la prosecuzione della vita al concetto di dignità della stessa è tarato alla base dalla concezione sbagliata della scienza come fatto oggettivo ed immutabile nelle sue scoperte: essa invece non lo è per nulla, anzi la scienza, quella medica in primis, è un sistema in continua evoluzione e mutamento: ciò che oggi è la cura, domani sarà superato da altre diverse metodologie. Rebus sic stantibus, la miglior scienza ed esperienza del momento storico è solo un grado precario delle conoscenze che certo non può fondare mai la decisione di terminare una vita: del resto il caso del celebre astrofisico Stephen Hawking, vissuto per oltre 50 anni con una grave malattia degenerativa, ci dimostra che la vita non ha bisogno di aggettivazioni e che si possono sempre fare grandi cose finché essa c’è. «Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi… Per quanto difficile possa apparire la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire» [9].
Senza volermi addentrare nell’esame delle Disposizioni Anticipate di Trattamento, il carattere non attuale delle stesse, intendendo l’attualità come possibilità di riesaminare sempre le proprie convinzioni nel momento in cui richiedono un’attuazione, le rende totalmente inutili nel quadro ipotetico del rispetto della volontà della persona: chi deve deciderne infatti l’attualità? Il medico o il familiare del paziente, ove esso non venga ritenuto più capace d’intendere e volere: anche su quest’ultima valutazione del discernimento del paziente occorre tacere su quale sia e come sia fatta oggi la valutazione in sede medica, tutelare e giudiziaria dei casi concreti e quali incredibili routines, carenze e derive pratiche, incontri ogni caso concreto. Perciò, se il paziente è capace, le DAT non servono; se invece è incapace, decide non la DAT ma il medico o il familiare se è “attuale”. E allora, cui prodest? Alla discrezionalità o meglio all’arbitrio del medico o alla tutela di una ipotetica volontà risalente del paziente?
Nessuna DAT può mai essere vincolante in modo assoluto, essendo soggetta al principio rebus sic stantibus dato il carattere della situazione giuridica disciplinata.
“[…] La volontà anticipata deve essere sempre contestualizzata alla stregua di un giudizio che non può non tener conto del lasso temporale che interviene tra il momento dell’espressione della volontà e il momento in cui questa va attuata. In tale lasso, la scienza medica non sta a guardare, ma progredisce secondo esiti spesso imprevisti o oggettivamente imprevedibili, i quali, viceversa, ove previsti o conosciuti, avrebbero sensibilmente mutato il quadro di riferimento a disposizione dell’autore delle direttive” [10].
Si sa bene a quali praterie di discrezionalità apra la strada la “contestualizzazione” dell’interprete in ambito medico e giudiziario. Una diversa interpretazione, puramente contrattualistica, esporrebbe l’interprete all’applicazione del divieto di atti di disposizione del proprio corpo o di non meritevolezza, quindi di tutela [N.d.A.], dell’indicazione anticipata. La DAT non è un contratto né è ad esso assimilabile, perché la vita non è un diritto patrimoniale ma un diritto della personalità indisponibile a pena di violare non solo l’art. 2 della Costituzione, quale limitazione all’attuazione della propria personalità, ma anche il diritto alla vita. Per concludere, come abbiamo iniziato, con il nazionalsocialismo che, contrariamente alle apparenze, ha esportato nelle società moderne “democratiche” molti dei suoi aberranti ideali, possiamo citare il documento con cui Hitler incaricò Philip Bouhler e Karl Brandt di procedere all’eliminazione dei disabili tedeschi:
“Timbro
Berlino, 1 settembre 1939
Adolf Hitler
Il Reichsleiter [= Capo, investito di un potere valido su tutto il territorio del Reich – N.d.A.] Bouhler e il Dr. Med. Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia” [11].
Di fatto, è l’istituzionalizzazione del medico come valutatore della qualità della vita ed esecutore del diritto di morire, che molti ordinamenti europei hanno mutuato oggi.
(Tratto da C. Chiessi-F. Fuiano-F. Scifo, “Una difesa della vita senza compromessi. Per minare l’ideologia pro morte dalle fondamenta”, pp. 283-292, Aracne Editrice, Roma 2020)
Note
- Cfr. P. WELBY, Lettera aperta di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, pubblicata su “MicroMega”, 24 febbraio 2009;
- Tale definizione trae origine da una visione politica attuale che però non tiene conto dell’essenza umana come natura, data da sempre e per sempre, dal concepimento fino alla morte naturale. Dunque non soggetta all’arbitrio di qualsivoglia legislatore;
- Cfr. Cass. pen. sez. 4, n. 27539, 2019;
- Cfr. C. CASTRONOVO, Autodeterminazione, e diritto privato, in «Europa e diritto privato», 2010, vol. 4, p. 1053;
- Cfr. L.E. PERRIELLO, L’Autonomia Negoziale nel fine vita, in «Servizio Studi Corte Costituzionale», 2015, p. 14;
- Cfr. ID., op. cit., p. 14; ma anche CEDU, Grand Chamber Case of Gross v. Switzerland; Case of Lambert & Others v. France;
- A. DE FRANCESCO, Vita e Morte nell’art.2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in ATIDU, 2015;
- Cfr. F. SCIFO, L’efficacia delle sentenze della CEDU. Carattere politico delle giurisdizioni internazionali, in “Diritto in Europa oggi”, Key editore, 2016;
- Cfr. T. LUMBYM, S. CURTIS, Stephen Hawking’s moving speech at Cambridge University to mark 7hth birthday leaves audience in tears, “Daily Record”, 3 luglio 2017;
- L.E. PERRIELLO, op. cit., p. 17;
- Cfr. A. RICCIARDI VON PLATEN, trad. M. Graziadei, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Le Lettere, Firenze 2000, p. 26.