Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento del Dr. Florio Scifo, Segretario ALU, al convegno “Dall’Habeas corpus all’Habeas mentem. Per una tutela completa dei diritti umani”:
Vorrei cominciare questo mio intervento riprendendo in parte quanto avevo scritto alcune settimane fa in un articolo pubblicato sul sito della nostra Associazione Liberamente Umani, relativamente a “libertà di culto e pandemia”. A conclusione dell’articolo ricordavo, infatti, che “dovrebbero essere criticamente vagliati, pur nel rispetto delle legittime autorità, i pronunciamenti legati alla valutazione morale di determinati procedimenti scientifici o farmaci”.
Il riferimento era, ovviamente, principalmente rivolto alla “Nota della [Pontificia] Congregazione per la Dottrina della Fede sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti COVID-19”. Tale Nota, approvata da Papa Francesco in data 17 dicembre 2020 e pubblicata dal Prefetto della medesima Congregazione, Card. Luis Ladarìa, il 21 dicembre, si rifà a due precedenti documenti della Pontificia Accademia per la Vita, rispettivamente del 2005 e del 2017, e ad un’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede dell’8 settembre 2008. La Nota del 21 dicembre, come si sa, afferma la liceità morale per un cattolico di sottoporsi alla cosiddetta vaccinazione anti COVID-19, anche qualora il prodotto utilizzato sia stato preparato facendo uso di linee cellulari provenienti da embrioni o feti abortiti. Questa posizione, che attualmente riguarda tutti i principali cosiddetti vaccini anti COVID-19 in commercio, sviluppati facendo uso della linea cellulare embrionale HEK 293 (o Per.C6 per Johnson&Johnson), offre in realtà diversi spunti di riflessione.
Anzitutto, essa, prudentemente, parla di accettabilità morale, non di obbligo morale della cosiddetta vaccinazione e al paragrafo 5 lascia spazio alla possibilità di rifiutarla comunque, sempre per ragioni morali. Insiste, infatti, sul fatto che “[…] appare evidente alla ragione pratica che la vaccinazione non è di norma un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria”. Proprio la volontarietà, però, come sappiamo, viene messa attualmente in crisi dalle normative vigenti specialmente per gli operatori sanitari italiani.
In secondo luogo, e qui mi si consenta rispettosamente e umilmente una pars destruens, seppur tendente ad construendum e sempre senza alcuna volontà di sostituirmi alle legittime autorità magisteriali, la “raccomandazione” di vaccinarsi si fonda sul presupposto che il cosiddetto nuovo coronavirus sia “un agente patogeno grave”. Questo è certamente vero in un determinato numero di casi, ma è altrettanto sicuramente opinabile in linea generale. Peraltro, la vaccinazione con prodotti che nella loro preparazione abbiano utilizzato linee cellulari fetali è ritenuta “accettabile” nella misura in cui non vi siano altre cure o trattamenti efficaci disponibili. Anche questo non è il caso del coronavirus, per cui come sappiamo esistono ben altre cure più economiche e meno pericolose, delle quali parlerà chi di dovere. Esistono pure vaccini che non fanno alcun uso della suddetta linea Human Embrionic Kidney 293, elencati già a novembre 2020 in una lista pubblicata dalla Fraternità San Pio X. Tuttavia, essi non sono attualmente a disposizione o, comunque, non godono del favore riservato agli altri.
In terzo luogo, la Nota citata si basa sul presupposto che i farmaci in commercio siano ritenuti “sicuri ed efficaci” dalle autorità scientifiche. Un presupposto di certezza che, a quanto pare, attualmente non esiste.
Infine, avendo recentemente curato un volume di studi miscellanei bioetici sul diritto alla vita, non posso esimermi dal far notare a titolo personale che la “cooperazione remota all’aborto”, indicata nella Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, pur non costituendo, secondo la Congregazione, un peccato (mortale) per un cristiano a meno che questi non approvi l’atto che ne è all’origine, pone un problema morale di carattere generale e a maggior ragione nel caso specifico, in mancanza degli altri presupposti che ho indicato.
Il paragrafo 3 recita, infatti che è da “sottolineare tuttavia che l’utilizzo moralmente lecito di questi tipi di vaccini, per le particolari condizioni che lo rendono tale, non può costituire in sé una legittimazione, anche indiretta, della pratica dell’aborto, e presuppone la contrarietà a questa pratica da parte di coloro che vi fanno ricorso”.
Eppure, sappiamo bene come va il mondo e, se un prodotto derivato da pratiche giudicate immorali viene comunque accettato da chi le rigetta, questo spingerà produttori senza scrupoli a portare avanti le loro pratiche, fondandosi sul ben noto processo psicologico della “Finestra di Overton”. Questa è proprio la “legittimazione indiretta” che si vorrebbe evitare nel documento. Prova ne sia il fatto che la stessa moralità dell’utilizzo di una linea cellulare fetale assimilabile ad HEK 293 era in discussione già nel 2005, quando fu approvato il precedente documento pontificio che ho citato e che si concludeva richiamando la necessità di eliminare quanto prima questa problematica. In ben 15 anni, dunque, non c’è stato nessun passo avanti dal punto di vista morale, ma si continua a riproporre e si tende sempre più ad accettare, una soluzione di compromesso largamente insoddisfacente.
Sarebbe pertanto doveroso pretendere che chi ha imposto l’obbligatorietà della cosiddetta vaccinazione per i sanitari e la porta avanti più o meno coattamente nei confronti di milioni di persone, mettesse anche a disposizione prodotti non semplicemente “accettabili” ma eticamente ineccepibili e di comprovata efficacia. Il fatto che in passato si sia scesi a compromessi non significa che tali compromessi debbano valere per sempre, tanto più che le soluzioni, come detto, già esistono e basterebbe solo applicarle su larga scala.
Ovviamente, il discorso è valido non solo per i vaccini o farmaci ma anche per tutti i prodotti che, ad esempio, sono frutto del lavoro di persone, spesso minorenni, trattate in maniera bestiale e disumana. Chi è a conoscenza di tali pratiche, dovrebbe dunque cercare in tutti i modi di evitare che esse si perpetuino, boicottandone i prodotti e sensibilizzando i propri conoscenti in tal senso.
Da questo punto di vista, mentre preparavo il presente contributo, ho avuto modo di leggere le considerazioni di un importante intellettuale italiano, favorevole alla cosiddetta vaccinazione anti coronavirus, che portava l’esempio dell’utilizzazione moralmente lecita di organi per il trapianto presi dal corpo di una vittima di omicidio. Ciò è, a mio parere, calzante solo nella terminologia utilizzata, perché il legame tra l’aborto e l’industria farmaceutica non è solamente un fattore “accidentale”.
Tornando ai cosiddetti vaccini anti COVID-19, si dovrebbe anche rilevare il loro recente sviluppo, con tutte le conseguenze annesse e connesse al fatto di essere ancora sperimentali, come fattore meritevole di attenzione a livello prudenziale e quindi anche morale. Proprio lo scientismo imperante, ossia la fede cieca nella scienza, quasi fosse una nuova religione dogmatica, è certamente un pericoloso risvolto dei nostri tempi, con profonde implicazioni morali da cui bisognerebbe guardarsi.
In particolare, anche dal punto di vista letterario, io potrei suggerire a chiunque adesso ci ascolta di leggere due libri di C. S. Lewis, di cui uno è un saggio (“L’Abolizione dell’Uomo”), mentre l’altro è un romanzo (“Quell’Orribile Forza”) che parla delle derive di una scienza che non ha più morale al di là del guadagno.
Inoltre, è dubbio se si possa parlare di “vaccinazione” (e non, piuttosto, di terapia genica) per i prodotti a RNA messaggero, cosa che ovviamente comporterebbe ulteriori problematiche morali, legate tanto alla pressoché totale novità della pratica in sé quanto alla somministrazione e assunzione su scala mondiale di tali prodotti.
Relativa praticamente a tutti i farmaci è, invece, l’obiezione di coscienza che, per chi volesse, si dovrebbe poter opporre almeno in Italia alla sperimentazione animale, così come regolata dalla legge 413/93.
Tra l’altro, specialmente in relazione a quest’ultimo tema aggiungerei che, trattandosi di casi di coscienza, non si dovrebbe nemmeno sindacare, come invece talvolta si è fatto, la scelta di opporre obiezione per un determinato prodotto piuttosto che per un altro. Infatti, posta una norma generale dell’agire etico, come può essere il Comandamento biblico “Tu non ucciderai” o l’imperativo morale di non danneggiare il proprio corpo, casi distinti al suo interno meritano valutazioni (anche morali) distinte.
Sempre il problema della coscienza mi permette di accennare brevemente ad altri due aspetti strettamente interconnessi e parimenti minacciati, o comunque compromessi, in questo anno e mezzo di pandemia: la libertà di pensiero e la libertà di movimento.
La prima è stata ed è tuttora messa in discussione, oltre che da quanto ho detto prima, anche dalla creazione retorica della categoria sociale dei “negazionisti”, e dall’attribuzione delle colpe per i disastri causati dalla mala gestione politica della situazione a categorie sociali di volta in volta differenti. Questo è un sistema di matrice comunista, fondato sul più classico “divide et impera”, ben noto a chiunque abbia avuto modo di leggere almeno il primo volume di “Arcipelago GULag”. Si profila, inoltre, all’orizzonte una tendenza molto pericolosa non solo a censurare ma anche a condannare legalmente l’espressione di opinioni discordanti dal pensiero che si vuol far passare come dominante.
Secondo il diplomatico pakistano Muhammad Zafrullah Khan, il cui testo mi è capitato di tradurre in parte, alla libertà di pensiero e di religione, così come enunciata negli artt. 18 e 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, si ricollega strettamente quella che lui chiama “libertà di viaggiare”. Infatti, notava Khan che “è un po’ paradossale, tuttavia, che mentre la Dichiarazione stabilisce la libertà “di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione e indipendentemente dalle frontiere”, non cerchi di promuovere la libertà di viaggiare […] attraverso le frontiere alla ricerca della conoscenza, dell’informazione e delle idee – una libertà di cui l’umanità ha goduto per secoli e che è stata seriamente ostacolata nell’attuale generazione, con la conseguente restrizione di una feconda fonte di conoscenza e comprensione”.
Queste parole furono scritte nel 1961, eppure esse mi sembrano estremamente attuali anche oggi, nel momento in cui spostarsi, non solo tra nazioni confinanti, fino a poco tempo fa legate da più di un trattato internazionale, ma anche tra regioni e addirittura tra città è diventato un problema.
Ne consegue che, come la libertà di pensiero, pur nei limiti della decenza, non dovrebbe essere censurata, così non dovrebbe essere reso difficile muoversi, se non per brevi periodi, con ragioni ben precise e in aree limitate. Questo perché notoriamente i danni non solo economici di provvedimenti del genere sono ben maggiori dei benefici. Tantomeno una tale libertà dovrebbe essere indiscriminatamente sottoposta alla presentazione di certificati o passaporti sanitari che, oltre ad essere di per sé inutili e più o meno velatamente discriminatori, se non addirittura dannosi alla luce dei recenti studi e accadimenti, riportano dati sensibilissimi e violano più di un diritto finora ritenuto inviolabile.
Del resto, il legame esistente tra libertà di pensiero e libertà di movimento è evidente a tutti, ictu oculi, per così dire. Io stesso, in qualità di referente romano di un’associazione culturale internazionale italo-austriaca, ricordo bene lo scambio epistolare intercorso tra i membri del direttivo sull’opportunità di aver chiuso di punto in bianco il confine del Brennero; dibattito sfociato in un comunicato ufficiale che invitava “tutti gli addetti ai lavori a fare tutto il possibile e tutto il ragionevole per evitare isolamenti e divisioni poco utili. Il coronavirus va arginato e combattuto, ma bisogna impegnarsi a non portare l’Europa allo stato di uno spezzatino che proprio noi umanisti vogliamo evitare […]. L’idea di un Humanitatis symposium ci guiderà”.
Si pensò perfino di scrivere una lettera ai decisori politici per tentare di farli desistere dal protrarre nel tempo misure così drastiche ma alla fine non se ne fece niente. La mancanza di capacità d’azione e l’indecisione sul da farsi, insieme al ripiegamento su azioni in sé buone ma di scarsa rilevanza nell’attuale contesto emergenziale, sono in effetti problemi che ho avuto modo di riscontrare anche in altri ambiti più strettamente legati alla difesa dei diritti umani.
In conclusione, vorrei sottolineare ancora come, paradossalmente, ai nostri giorni sembri venir meno il concetto stesso di “prossimità”. Ciò accade sia dal punto di vista spazio-temporale, nonostante lo sviluppo di mezzi di comunicazione sempre più evoluti ma sempre più difficili da utilizzare a causa di una inextricabilis silva di prescrizioni e nonostante l’illusione di prossimità data da Internet, sia dal punto di vista morale, con il clima di sospetto e delazione che si è creato. Un clima che sta portando probabilmente anche al tracollo di un altro elemento fondante delle società civili che, avendo una formazione archivistica, ho avuto modo di considerare con particolare attenzione. Mi riferisco al valore dell’ufficialità nel verificare l’attendibilità di una notizia, profondamente inficiato dalla sequela di comunicazioni contraddittorie, poco fondate o palesemente false fornite dalle istituzioni, cosa che ovviamente mina irreparabilmente a breve, medio e lungo termine la residua autorevolezza e credibilità delle istituzioni stesse.
Sarebbe bene, dunque, che ciascuno di noi alla fine di questo convegno non si limitasse ad aspettare l’evolversi degli eventi, ma si convincesse piuttosto della necessità di agire per cambiarli, poiché, come diceva sant’Agostino, “noi siamo i tempi; quali noi siamo, tali sono i tempi”.
Grazie.