COVID e Chiesa Cattolica: un approfondimento ulteriore

Nel mio intervento per il convegno ALU del 12 aprile scorso, facendo una rassegna della documentazione vaticana relativa alla liceità morale della vaccinazione, mi ero fermato alla Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede del 21 dicembre 2020. Ora, alla luce dell’evolversi degli eventi e dei dibattiti che si sono via via suscitati, sarà bene fare un piccolo passo in avanti per analizzare un’altra Nota, stilata congiuntamente dalla Commissione Vaticana Covid-19 e dalla Pontificia Accademia per la Vita in data 29 dicembre 2020.

Chiariamo subito che tale documento non presenta nessun carattere magisteriale: la Pontificia Accademia per la Vita è, infatti, un organo con funzione meramente consultiva circa le questioni bioetiche, le cui posizioni, specialmente negli ultimi anni, si sono peraltro esposte a numerose critiche tali da spingere alcuni suoi storici membri (che chi scrive conosce personalmente) ad abbandonarla, fondandone un’altra separata.

Se è vero, dunque, che questa Nota di per sé non ha quel carattere moralmente vincolante che, in linea di massima, avrebbe potuto avere la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede (se non fosse stata carente nei presupposti, come abbiamo visto), è altrettanto vero che essa riporta, talvolta estremizzandole, alcune delle riflessioni morali esposte nei documenti che la precedono e, soprattutto, nella sua parte finale in 20 punti ha un carattere eminentemente operativo.

Abbiamo già parlato del “cortocircuito bioetico” che si crea nel condannare a parole l’uso di linee cellulari fetali nell’industria farmaceutica, accettandolo però nei fatti, tanto più che nel caso specifico del Covid-19 esistono già altre cure più sicure ed efficaci dei cosiddetti “vaccini”. Il documento in effetti affronta il problema dell’utilizzo delle linee cellulari fetali, ribadendo che “la loro distribuzione e commercializzazione è in linea di principio moralmente illecita”, salvo poi presentare un distinguo dettato dalla necessità di porre fine all’emergenza ed affermare che di fronte a questa minaccia del coronavirus, sono da ritenersi “non vincolanti” i criteri che renderebbero moralmente illecita la “vaccinazione”. La Nota, poi, in modo del tutto temerario si spinge a parlare di “responsabilità morale” della “vaccinazione”, dando tra l’altro per scontato che le fasi sperimentali siano finite con l’autorizzazione condizionata al commercio (EMA) o con quella di emergenza (FDA). Va constatato invece, alla luce di quanto dichiarato per iscritto dalle stesse case produttrici nei bugiardini e dalle autorità regolatrici nei report, che tali fasi sperimentali non si concluderanno prima del periodo 2023-2025. Di conseguenza, anche questo presupposto deve essere ritenuto invalido. Inoltre, come già detto, costituisce forzatura ideologica definire “vaccini” i prodotti a mRNA e non sono attualmente note né le conseguenze a medio e lungo termine della “vaccinazione” (laddove cominciano invece ad emergere gravi conseguenze a breve termine), né l’effettiva capacità immunizzante (che anzi viene sempre più spesso messa in dubbio dagli stessi “esperti”). Tutto ciò è ancora più valido alla luce dell’attuale prassi di sottoporre la popolazione ad un “mix vaccinale” dagli effetti assolutamente sconosciuti.

L’intero documento e in particolare la parte “operativa” è pervaso da una visione puramente “orizzontale” che certamente mal si addice alla fonte da cui promana. Da cristiani non si può non storcere il naso di fronte alla glorificazione di questi prodotti come “luce e speranza” (laddove la luce del mondo sarebbero anzitutto Cristo ed i cristiani stessi) ed all’affermazione di una Chiesa al servizio della “guarigione (materiale) del mondo”. Si tratta chiaramente di un’estremizzazione della dottrina sociale della Chiesa su cui bisognerebbe mettere in guardia.

Concluso il discorso sulla Nota, vorrei ora soffermarmi su una tendenza altrettanto singolare che, da studioso di Storia della Chiesa, mi è capitato di notare in questi ultimi tempi: la volontà di giustificare assolutamente, tramite studi e ricerche, la continuità delle attuali misure di “prevenzione” del coronavirus attuate in Vaticano con la tradizione ecclesiastica degli ultimi 3 secoli. Questo, a quanto mi consta, è particolarmente evidente in due studi, dei quali uno è stato pubblicato in forma cartacea da un noto Storico della Chiesa (che peraltro conosco personalmente), mentre l’altro è disponibile online da gennaio 2021 sul sito di un importante quotidiano cattolico internazionale (sul quale io stesso ho avuto modo di pubblicare in passato e, talvolta, di contestare alcune questioni affrontate in maniera abbastanza superficiale). Ebbene, specialmente in relazione al secondo studio, l’onestà intellettuale spingerebbe a notare che se anche delle misure “draconiane”, compreso l’obbligo vaccinale, sono state prese in passato nello Stato Pontificio, con particolare riguardo alla vaccinazione contro il vaiolo, è pur vero che:

  1. La mortalità del vaiolo non può essere paragonata a quella del coronavirus, così come risultano difficilmente confrontabili le condizioni sanitarie attuali con quelle della fine del XVIII sec/inizio XIX sec;
  2. La problematica morale relativa all’uso di linee cellulari fetali nell’industria farmaceutica all’epoca non poteva essere nemmeno concepibile;
  3. L’obbligo vaccinale istituito da Pio VII sarà comunque fondamentalmente abolito dal suo successore Leone XII;
  4. Nel XIX secolo erano ignote le incognite di una tecnologia ad RNA messaggero applicata in ambito vaccinale, oltre ad essere ignorata la stessa esistenza dell’RNA messaggero;
  5. All’epoca, nel prevedere l’istituzione di un certificato vaccinale che fornisse dei vantaggi al possessore o perfino nel fare censimenti di vaccinati e non vaccinati, non erano ancora stati affrontati i problemi relativi alla riservatezza dei dati sanitari.

In conclusione, va ribadita ancora una volta la prudenza nell’approcciarsi alla documentazione storica, dal momento che, come diceva C. S. Lewis, “le cose non accadono mai due volte allo stesso modo”.

Florio Scifo

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