Quando, nel gennaio 2020, Netflix distribuì The social dilemma il pubblico reagì con uno scalpore forse un po’ eccessivo ma transitorio.
Eccessivo, perchè le opacità “denunciate” descrivevano, in realtà, funzionamenti già ampiamente noti (e da almeno una decina d’anni) tra quanti non soffrissero di marcato divario digitale. E transitorio perchè – probabilmente – la gamma di violazioni e manipolazioni attribuibili dal film (mezza) verità all’algocrazia non sembrava andare oltre la propria – seppur risicata – comfort zone (quel minimo di privacy e autodeterminazione ritenuti inaccessisibili alle intrusioni digitali e in generale tecnomediate).
A distanza di poco più di un anno, passa invece in sordina la “novità” in arrivo da Facebook (e probabilmente non solo, se è vero che anche Apple sta lavorando da almeno due anni a un progetto simile): un paio di smartglass (occhiali a realtà aumentata) collegati a un’interfaccia utente e controllabili mediante i guanti tattili o i morbidi braccialetti abbinati.
L’idea (il progetto è in corso di completamento) è che un elettromiografia (EMG) rilevi nel polso il potenziale elettrico generato dalle cellule muscolari (movimenti millimetrici o, in un futuro prossimo, anche solo intenzioni) e lo traduca in azioni: i nuovi occhiali AR “devono essere in grado di fare quello che vuoi che facciano e dirti quello che vuoi sapere quando vuoi saperlo, più o meno allo stesso modo in cui funziona la tua mente: condividere le informazioni senza interruzioni, agire quando lo desideri e – altrimenti – non intralciarti.“
La situazione è però un po’ più articolata di come la presenta il CEO Mark Zuckerberg.
Intanto, perchè questi occhiali AR (realizzati – pare – in collaborazione con Ray Ban) saranno pensati per poter essere comodamente indossati ininterrottamente e poter quindi “funzionare in ogni situazione che incontrerai nel corso di una giornata“, cosa che potrebbe implicare il superamento de facto degli ultimi argini faticosamente difesi da quanti hanno a cuore la propria privacy: come far valere, ad esempio – la disattivazione del riconoscimento facciale mentre i nostri interlocutori interagisconoo con noi muniti di tali visori AR? Come prevenire quello che ironicamente (ma non troppo) alcuni già chiamano rischio stalking?
Secondariamente, è verosimile che l’era dei dispositivi wearable corrisponderà, per ammissione dei loro stessi promotori, all’inaugurazione dell’epoca della mind reading technology, con apertura di un “canale di comunicazione bidirezionale” attraverso cui l’utente potrà sia interrogare che essere interrogato: potenti modelli di intelligenza artificiale – precisa sempre Zuckerberg – studiati appositamente per “comprendere le nostre esigenze“, così che “un giorno possa accadere la cosa giusta senza che tu debba fare alcunchè“. Integra la stupefacente previsione la possibilità di eliminare personalmente (sì, dice proprio così) “i pendolari e le cose che sono una specie di seccatura per noi individualmente” (!?) grazie a non meglio precisate possibilità di teletrasporto (che, sempre a suo dire, sarebbero anche più ecologiche: un un must, di questi tempi).
Certo – prosegue il fondatore di Facebook – continueranno a esistere cose come le auto o gli aerei. Ma viene a questo punto da chiedersi: per chi?
Nell’attuale momento di globale (tendenza alla) reclusione tra quattro mura, il pensiero non può che rivolgersi ad altri imponenti progetti di AI come Neuralink di Elon Musk, da un lato osannati come possibile panacea per gravi malattie neurologiche e, da un altro lato, osservati con una certa inquietudine per le promesse che intende mantenere entro il 2040: perfetta riproduzione (o creazione ex novo) di odori o sapori senza sperimentare concretamente la sensazione; avatar realistici al punto da consentire un vero e proprio contatto oculare con l’interlocutore; comunicazione telepatica (con e addirittura senza parole); impianti neuronali in grado di aumentare (e, si vocifera, persino “scaricare”) la nostra memoria; e molto altro ancora…
E se le redini di tutto finissero “nelle mani sbagliate?“, chiedeva saggiamente un report a cura della britannica Royal Society già nel 2019. Queste realtà emergenti “potrebbero portare enormi benefici economici al Regno Unito e trasformare settori come il National Health Service […] e l’assistenza sociale; ma se gli sviluppi sono determinati da una manciata di aziende, le applicazioni meno commerciali potrebbero essere messe da parte. Questo è il motivo per cui chiediamo al governo di avviare un’indagine nazionale“.
Non sappiamo se e come tale invito sia stato accettato, a maggior ragione considerando che, proprio pochi mesi dopo la pubblicazione di tale report, intervenivano – per un’incredibile sfortuna – le circostanze che hanno reso tristemente noto il 2020.
Per ora, possiamo comunque constatare che in presenza di tecnologie più subliminali e meno invasive sono state già compiute importanti (e spesso difficili da individuare, quantificare e perseguire) violazioni della nostra privacy e, in parte, del nostro diritto all’autodeterminazione. Cosa dunque ci autorizzerebbe a escludere categoricamente che, con la diffusione incontrollata di strumenti ancora più potenti e delicati (e con funzionamenti altrettanto difficili da monitorare), le magnifiche sorti e progressive perseguite dai cultori dell’human-oriented computing e della cyborg era possano celare ragnatele ancora più invischianti di quelle ad oggi in agguato nel web?
Julie Bicocchi

Un pensiero riguardo “The AR dilemma.”